Cristo!

Pensai, avverso a quel pensiero che mi era appena affiorato nelle sinapsi andate.

Il sangue defluì liquido nei canaletti di scolo ch’erano i vasi sanguigni del mio braccio.

“Ma certo, cazzo, i Rettiliani, la Kundalini arrotolata, il Serpente dell’albero della conoscenza…tutto aveva un fottuto, oscuro senso.”

Una sostanza nascosta fluiva sparata nella materia del mio corpo.

(Evertrip was here)

E così

vi do la buonanotte. Grazie a tutti, da qui, da questo posto immateriale. Un solo monito, mi lascio: dobbiamo farle più spesso queste cose, nessuno le sa far meglio di noi. Notte. ‘Notte…

Non vidi mai quel film

Ripenso al film di cui Icke mi sta parlando. Non l’ho mai visto ma ne ho un vago ricordo. Mi sforzo, cerco di recuperare un’informazione che pulsa in fondo a qualche sinapsi senza riuscire a urlare alla mia coscienza la sua presenza. E’ un eco lontano, l’intuizione di sapere ma non ricordare.

Poi arriva. Involontaria maieutica e ricordo dove avevo sentito di quel film, quel titolo, quella sconosciuta storia.

E alla memoria mi torna il volto di mio nonno. Lo ricordo alto, magro e ciondolante sulle gambe esili e deboli della vecchiaia. Jacopus si chiamava. Lo chiamavano Jacopus B., ma nessuno ha mai saputo cosa significasse quella B.

Davanti agli occhi il ricordo scorre, fotogrammi senza trama di un frammento distorto di memoria. Eravamo seduti su una panchina in un parco deserto, poche dune di sabbia ondeggiavano al vento. La sua voce cavernosa, devastata dallo smog, ripesava alla sua giovinezza: preistoria di un mondo per me solo sognato, reale favola.

Mi parlava dei suoi genitori, severi e duri come lamine di metallo tagliente. E la tv, qualunque cosa fosse la tv a due dimensioni e bisensoriale. Di un film, di una serie di puntuate, di una donna, di un cadavere, di infiniti colpevoli, di nessun colpevole. Di un film che il nonno non riuscì mai a vedere  per il divieto, il veto dei suoi genitori. Un film mai visto che restò impresso nella sua memoria di uomo come indelebile vuoto, buco profondo, foro di un proiettile mai sparato, rettile sibilante silenzio.

Fu tanto tempo fa e neppure io vidi mai quel film. Quel film che pare tornare maligno nelle trame biografiche della mia famiglia.

(Logos)

 

L’illusione

è configurata stabilmente, ormai. Sembra soltanto una visione esterna della camera craniale ausiliaria, e invece è parte del continuum stesso. Di quello che si svolge altrove. Il dado è tratto.

And there’s some music in the air…

“Ricorda Lynch? – chiese Icke. – Sono passati quasi 40 anni dal suo ultimo film.”
“Francamente non so di cosa sta parlando”, lo interruppi.

“Noi viviamo in un sogno – continuò come se non mi avesse sentito.  – Quello che ci circonda è un’illusione.” 

 

La manipolazione genetica fa miracoli. All’inizio, grazie agli studi sulle staminali, abbiamo iniziato a curare malattie ereditarie. Prevenire l’ipotesi di feti deformi. Far svanire allergie. Balbuzie. Fibrosi cistica. Cancri al collo dell’utero. Ittiosi. Leucemia. Alzheimer. Parkinson. Cirrosi.
Poi abbiamo cominciato a lavorare sull’aspetto estetico dell’individuo. Nasi irregolari. Zigomi troppo pronunciati. Occhi troppo neri. Occhi troppo blu. Occhi troppo poco neri, o troppo poco blu.
Poi l’ingegneria genetica si è rivelata missione sociale dai precisi risvolti etici. Abbiamo iniziato a costruire un’ipotesi di genoma che si adattasse dinamicamente alla figura professionale del manovale. Dell’infermiera. Dell’avvocato. Dell’operaio. Del notaio. Del barista. Del tassista.

Davanti a noi c’era il risultato di decine di anni di sperimentazione genetica ad opera del governo. La programmazione economica era tale, per cui davanti a noi sedeva (e guidava) l’esito del piano quinquennale del Governo. “Abbiamo bisogno di tassisti?” 

Colui che ci guidava verso il nulla rappresentava, nella carne, una risposta a una domanda calataci dall’alto.    

Oltre

la strada, un coreografo di arcobaleni distopici segna ilsentiero tra l’olografia e la sensazione postumana.

Musica nell’aria

E nel taxi una musica ristagna segreta. E’ il silenzio di note già sfiorate. E’ il profumo che si appiccica sulla pelle e resta impregnato del sapore di sudore. E’ il sasso che viene trascinato su un monte e che cade. Cade. Cade. Cade. Cade. Infinite volte. E’ il destino. E la metafora.

(Logos)

Non sento le sue parole

Non sento le sue parole, odo solo rumori ma il taxista è indefferente alla mia indifferenza e contina a parlare. Delle sue parole resta sintetica memoria nelle pareti scrostate del taxi.

“Gialla. La realtà è gialla e il tempo pare verde. Non lo vede? Lì.. guardì lì… non vede la curva del nulla che si addensa in nubi violacee? Lei è qui, io sono qui, siamo in un medesimo istante ripeturo. Rosso. Il delirio è rosso e lo spazio è deformato. L’ovunque. Sento il senso dell’ovunque. Miriadi di stelle ancorate a cieli danzanti su sipari neri. Mi ascolta?! Non capisce ciò che le sto dicendo? Mi sente? Fiumi di silicio liquido e maleodorante, marrone deriva di liquami verdastri. Vi immerga la mano. E’ freddo. E’ vivo. Mi sente? Capisce? Mi ascolta?!!!”

Io continuai a non ascoltare, non udivo nulla. E il Senso delle parole del taxista si perse lungo l’asfalto su cui stavami correndo, e con esso io persi la Verità. Non mi accorsi neppure di esserne stato sfiorato.

(Logos)

Piango. Le linee della strada si sovrappongono ai riflessi prodotti dalle lacrime. Una forza inumana spinge i miei bulbi oculari verso l’esterno, pulsando, espandendo e restringendo le mie carni come un’esplosione olografica, prima proiettata, poi proiettata ancora, e ancora. La realtà è una lancia di metallo infetto che trapassa l’anima. Il tassista mi parla, ma la sua voce è solo un sordo rumore di fondo.